Cosa prevede il Protocollo di Kyoto

Premesse

Diciamo subito che il Protocollo di Kyoto (scaricabile da QUI), come tutti gli accordi internazionali, presenta il grosso limite della “non coercibilità”.  Diversi eminenti giuristi ritengono che il diritto internazionale non sia un vero “diritto”, perché le sanzioni alla violazione delle regole non  possono essere imposte agli Stati da un qualche organo da essi indipendente. Come tutti gli accordi internazionali, il suo successo dipende in buona parte dalla volontà politica degli Stati che lo hanno ratificato.

Diciamo anche che il Protocollo di Kyoto è frutto di un laborioso processo di mediazione: presenta quindi anche regole formulate in modo generico che possono prestarsi ad interpretazioni differenti.


 

A causa della sua complessità e del suo carattere “rivoluzionario”, il Protocollo ha richiesto 10 anni per poter essere pensato, elaborato, approvato e ratificato. Gli obblighi nazionali di riduzione sono  stati determinati sulla base dei dati del 1990, conseguentemente, per Paesi come Cina ed India, che all'epoca erano considerati alla stregua dei Paesi in via di sviluppo, non è stato previsto alcun obbligo. Per il periodo successivo al 2012, occorrerà che obblighi di limitazione siano previsti anche per questi Paesi.

Il Protocollo persegue obiettivi modesti rispetto alle esigenze imposte dai cambiamenti climatici e descritte in particolare dall'IPCC. Ciononostante, esso è un primo passo che potrebbe essere in grado di generare comportamenti virtuosi negli Stati partecipanti, ma anche in quelli rimasti fuori dall'  accordo.

Obblighi differenziati per Paese

Cio’ premesso, entriamo nel merito del Protocollo di Kyoto, dicendo anzitutto che una delle sue principali caratteristiche è la distinzione dei Paesi in tre fasce (distinzione si badi, elaborata sulla base dei dati del 1990 ed inclusiva di tutti i Paesi che nel 1997 avevano sottoscritto l’accordo, compresi quelli che poi non lo hanno ratificato).

A. I paesi industrializzati, responsabili della stragrande maggioranza delle emissioni, che sono ora tenuti a ridurre le loro emissioni complessive del 5,2% rispetto alle emissioni globali misurate nel 1990. Questo obiettivo dovrà essere raggiunto entro il periodo 2008-2012

  • Lo hanno ratificato: Austria, Belgio, Canada, Comunità Europea, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, , Lussemburgo, , Norvegia, Nuova Zelanda, Olanda, Portogallo, Gran Bretagna e Irlanda del Nord; Spagna, Svezia, Svizzera
  • Non lo hanno ancora ratificato: Australia, Liechtenstein, Monaco, Stati Uniti d'America

B.  I Paesi in via di transizione, per i quali sono stabiliti tetti massimi di emissione, talora superiori ai livelli di emissione misurati nel 1990.

  • Lo hanno ratificato: Bulgaria, Estonia, Federazione Russa, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Ungheria
  • Non lo hanno ancora ratificato: Croazia, Ucraina

C.  I Paesi in via di sviluppo a cui è riconosciuto il diritto a seguire un proprio sviluppo industriale. Ne consegue che essi non sono soggetti a vincoli particolari e avranno maggiori margini di manovra

  • Tutti i Paesi del gruppo lo hanno ratificato: Antigua e Barbuda, Argentina, Armenia, Azerbaigian, Bahamas, Bangladesh, Barbados, Benin, Bhutan, Bolivia, Botswana, Brasile, Burundi, Cambogia, Camerun, Cile, Cina, Cipro, Colombia, Cook, Corea del Sud, Costarica, Cuba, Rep. Dominicana, Ecuador, El Salvador, Figi, Gambia, Georgia, Ghana, Giamaica, Gibuti, Giordania, Grenada, Guatemala, Guinea, Guinea Equatoriale, Guyana, Honduras, India, Kiribati, Kirghizistan, Laos, Lesotho, Liberia, Malawi, Malaysia, Maldive, Mali, Malta, Marocco, Marshall, Mauritius, Messico, Micronesia, Moldavia, Mongolia, Myanmar, Namibia, Nauru, Nicaragua, Niue, Palau, Panama, Papua Nuova Guinea, Paraguay, Perù, Salomone, Samoa, Santa Lucia, Senegal, Sri Lanka, Sudafrica, Tanzania, Thailandia, Trinidad e Tobago, Tunisia, Turkmenistan, Tuvalu, Uganda, Uruguay, Uzbekistan, Vanuatu, Vietnam

Per ciascun Paese dei primi due gruppi il Protocollo prevede obiettivi precisamente quantificati di riduzione di emissioni di gas ad effetto serra da raggiungere entro il 2012. Questi obiettivi sono determinati attraverso una percentuale rispetto alle emissioni misurate nel 1990. Ad esempio, per L'UE l’obiettivo è 92, ovvero il 92% di emissioni rispetto a quelle del 1990, cioè una riduzione dell’8% rispetto a quell’anno. Per la Norvegia l’obiettivo è 101, ovvero le emissioni potranno essere aumentate fino all’1% in piu’ rispetto al 1990.

L’oggetto

I gas ad effetto serra individuati dal Protocollo sono ANIDRIDE CARBONICA (CO2), METANO (CH4), PROTOSSIDO DI AZOTO (N2O), IDROFLUOROCARBURI (HFC), PERFLUOROCARBURI (PFC), ESAFLUORURO DI ZOLFO (SF6).
Il Gas di riferimento è la CO2, gli altri gas sono misurati in “equivalente CO2", attraverso un preciso rapporto di cambio.


Le fonti di emissione e gli strumenti di intervento

Le emissioni di gas ad effetto serra dipendono da attività come:

  • produzione energetica (es. combustione di carburanti ed emissioni fuoriuscite da combustibili)
  • processi industriali (es. chimica, minerali)
  • agricoltura (incenerimento di rifiuti agricoli, incendi controllati, fermentazione enterica, trattamento del letame, ecc)
  • gestione dei rifiuti (discariche per rifiuti solidi, incenerimento dei rifiuti, trattamento delle acque reflue)

Per ridurre le emissioni si puo’ intervenire attraverso azioni domestiche su numerosi settori e su numerosi aspetti, attraverso politiche di risparmio energetico, promozione delle energie rinnovabili, riciclaggio dei rifiuti, ottimizzazione dei processi produttivi, innovazione tecnologica, assorbimento di CO2 tramite i carbon sink, ecc.

Sulla base del principio secondo cui non è importante dove sono attuate le riduzioni di emissioni, in quanto il problema ha carattere globale, il Protocollo ha predisposto tre strumenti  particolari denominati meccanismi flessibili:

  • Emission Trading (Scambio delle quote di emissione)
Istituzione di un mercato di “permessi di emissione”, in virtu’ del quale gli Stati possono acquistare “riduzioni virtuali” di emissioni da altri Stati che riescano a ridurre le proprie emissioni ad un livello maggiore di quello richiesto loro dal Protocollo. Il meccanismo puo’ essere adottato solo dai Paesi per i quali il Protocollo ha stabilito obiettivi di riduzione o limitazione. Il Protocollo prevede anche la possibilità di istituire mercati di emissione nazionali o macroregionali, cosa che l'Unione Europea ha deciso di fare, come vedremo tra poco.
  • Joint Implementation (Implementazione congiunta)
Accordi tra Paesi industrializzati e Paesi con economie di transizione in virtu’ dei quali un paese industrializzato (ospite) realizza un progetto di sviluppo con  un paese a economia di transizione (ospitante). Se il progetto produce minori emissioni rispetto ad un progetto analogo effettuato in assenza del meccanismo il paese industrializzato riceverà un ammontare di crediti pari alla differenza.
  • Clean Development Mechanism (Meccanismo per lo sviluppo pulito)
Accordi tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo i virtu’ dei quali un Paese industrializzato (ospite) realizza un progetto di sviluppo con un Paese in via di sviluppo (ospitante). Che produce minori emissioni rispetto a un progetto analogo effettuato in assenza del meccanismo. Il Paese industrializzato riceverà un ammontare di crediti pari a tale differenza.

Sanzioni

Sono due le tipologie di sanzioni a carico degli Stati che non dovessero riuscire a raggiungere gli obiettivi di riduzione o limitazione per essi fissati.

  • L’ammontare percentuale in eccesso rispetto agli obiettivi fissati, maggiorato del 30%, va a cumularsi con l’ammontare percentuale di riduzione di emissioni previsto per la seconda fase di attuazione del protocollo (quella in discussione per il periodo successivo al 2012)
  • Lo Stato inadempiente puo’ inoltre essere escluso dalla partecipazione ad uno o piu’ meccanismi flessibili.

Si tratta di sanzioni tutte interne al Protocollo e che potranno operare solo se si troverà un accordo per il periodo successivo al 2012.

La seconda sanzione è stravagante, dato che oltre a punire lo Stato contraddice il presupposto dei meccanismi flessibili secondo cui non conta dove la riduzione di emissioni è ottenuta. Se ne puo’ comprendere il significato solo premettendo che nel dibattito pre-Kyoto i meccanismi flessibili erano stati visti quasi come una sorta di “scappatoia” per gli Stati che non volessero rivedere i loro modelli industriali. Lo Stato sanzionato allora è costretto ad operare riduzioni di emissioni in casa propria, senza ricorrere ai piu’ economici progetti fuori dai confini nazionali.

Direttiva UE Emission Trading e la multa europea

A fronte di sanzioni blande previste dal Protocollo, va pero’ detto che esiste una sanzione molto piu’ convincente in ambito UE. 
L’UE ha emesso la Direttiva UE 2003/87/CE ai fini dell’attuazione del Protocollo, istituendo un mercato di emissioni regionale (area UE) e imponendo agli Stati membri l'allestimento di un piano nazionale con l'assegnazione di permessi di emissione ai singoli impianti di alcuni settori produttivi (trasformazione energetica, produzione metalli ferrosi-lavorazioni minerarie, cementifici, vetrerie , ceramica, cartiere)
Gli operatori di questi impianti potranno a certe condizioni partecipare al mercato dei certificati di emissione, vendendo o acquistando certificati a seconda delle emissioni emesse.
Per ogni tonnellata in equivalente CO2 emessa in eccesso dagli operatori, essi dovranno pagare una  multa pari a 40 euro nel periodo 2005-2007 e e una multa pari a 100 euro a tonnellata nei periodi successivi. Si tratta di una sanzione estremamente importante, soprattutto se pensiamo che il valore che si stima avrà una tonnellata di CO2 sul mercato dei permessi di emissione (di prossima apertura) dovrebbe essere tra gli 8 e i 10 euro. 
La sanzione è pari circa a 4 o 5 volte il valore di mercato di un corrispondente certificato di emissione.
Questa sanzione, oltre a costituire uno stimolo ulteriore per gli Stati UE a dare attuazione agli obiettivi di riduzione, potrebbe avere importanti effetti anche sul mercato dei permessi.
Infatti, qualora un numero importante di operatori di Stati europei si dovessero ritrovare con emissioni superiori alle quote di emissione per essi stabiliti, essi sarebbero fortemente motivati a ricorrere in massa all’acquisto di permessi di emissione sul mercato e ne spingerebbero in alto il prezzo (il permesso di emissione sul mercato è piu’ conveniente della multa se il prezzo resta sotto i 40 euro/100 euro).

In definitiva, il grande peso dei paesi UE nell’attuazione del Protocollo di Kyoto, unito alla presenza della “multa europea” potrebbero far lievitare notevolmente il prezzo dei permessi di emissioni, ben al di sopra degli 8-10 euro a tonnellata stimati per la fase iniziale del mercato.  La conseguenza potrebbe quindi essere un forte stimolo agli Stati alla riduzione delle emissioni, perché il costo delle ristrutturazioni necessarie a livello di processi produttivi e modelli di consumo risulterebbe piu’ basso del prezzo dei permessi di emissione, a causa degli effetti indotti dalla “multa europea”. 
Questo possibile scenario è una piccola garanzia che mi fa sperare che alla fine almeno i Paesi UE riescano a raggiungere gli obiettivi di Kyoto, perché costretti dall’alto prezzo dell’inquinamento ad ottemperare  all'imperativo della riduzione delle esternalità.

Prospettive

Tra poco si apriranno ufficialmente i negoziati per discutere del periodo successivo al 2012 e sarà essenziale il raggiungimento di una intesa con tutti quei Paesi che nel 1990 erano considerati Paesi in via di sviluppo e che hanno conosciuto una grande crescita negli ultimi anni.
Decisivi potrebbero essere anche eventuali cambiamenti politici in seno a Paesi come USA e Australia, dove l’opposizione è a favore del Protocollo di Kyoto, mentre gli attuali governi hanno deciso di non ratificarlo.

Il dibattito scientifico tra chi ritiene che i cambiamenti climatici siano causati dalle attività umane e chi ritiene infondate tali tesi si è praticamente spento nel mondo scientifico col generale riconoscimento da parte della quasi totalità degli esperti dell’evidente incidenza del fattore umano sui cambiamenti climatici (ci sono anche fattori naturali). Analogamente, i rischi legati ai cambiamenti climatici (innalzamento delle temperature, scioglimento dei ghiacciai, aumento dell’intensità degli eventi naturali estremi con conseguenti grandi rischi per le società umane) non sono oggetto di particolari contestazioni da parte della comunità scientifica.

Sul piano politico, nell’ultimo G8 anche il governo degli Stati Uniti, dopo lunghe esitazioni, ha riconosciuto l’incidenza delle attività umane sui cambiamenti climatici, pur preferendo restare fuori da Kyoto e ricercare partnership meno impegnative con altri Paesi.

Paradossalmente pero’ il dibattito è ancora aperto a livello mediatico e nei palcoscenici politici nazionali, dove la comoda e rassicurante tesi secondo cui i cambiamenti climatici dipendono solo da fattori naturali continua ad essere proposta e a ricevere un certo credito, nonostante siano pochissimi, e in genere poco autorevoli, gli scienziati che la avallino.

La situazione italiana

L'Italia è in  ritardo. Il Piano nazionale di riduzione delle emissioni di gas serra che illustra le strategie che l'Italia intende promuovere per dare attuazione al Protocollo di Kyoto, e il  Piano nazionale di allocazione delle quote di emissione (NAP) hanno suscitato un vespaio di critiche da parte delle associazioni ambientaliste che li hanno giudicato del tutto inadeguati. 
In particolare, il Piano nazionale di allocazione delle quote di emissione (NAP), imposto dalla citata direttiva sull'Emission Trading allo scopo di individuare i permessi di emissione per i grandi impianti industriali ed energetici operanti sul territorio nazionale dovrebbe essere il principale strumento di uno Stato UE per il controllo delle emissioni di gas serra sul suo territorio. Ad elaborarlo sono stati il Ministero per le attività produttive e il Ministero per l'ambiente. A leggerne la versione inizialmente presentata alla Commissione Europea, si nota che che il Piano nazionale, lungi dall'imporre una riduzione, contempla invece addirittura un aumento complessivo delle emissioni nell'ordine di circa il 22-23% rispetto al 1990 nei settori interessati dal provvedimento.
L'intenzione del governo sembra quella di ricorrere massicciamente all'acquisto di certificati di emissione e agli altri meccanismi flessibili.
La Commissione Europea, pur non bocciando il Piano, gli ha assegnato la sigla NC (non classificato), chiedendo all'Italia di abbassare drasticamente i tetti di emissione per settore. Lo scorso febbraio l'Italia ha  presentato alla Commissione Europea una integrazione al NAP, contenente un elenco dei 1210 impianti italiani ai quali saranno assegnate quote di emissione per gli anni 2005, 2006, 2007.

 

 

19/11/2005

Fonte: http://www.cercageometra.it